LA EX LIQUICHIMICA: SIMBOLO DI ABBABDONO E DEGRADO
Ferma e pallida, circondata dalla 106 e dalla costa del gelsomino, attesta il fallimento politico e sociale degli anni settanta. Una ciminiera di 174 metri, circondata da ferraglie e cemento, rappresenta la vergogna della punta dello stivale.
Vergogna che schiaffeggia l’inerzia prodotta dalla stasi politica mentre beffeggia i giovani costretti ad emigrare alla ricerca di lavoro. Eppure le risorse di questa terra vengono calpestate come erba marcia, osservate con distacco al pari della peste. In altri casi, invece, vengono decantate per opportunismi di circostanza per poi essere nuovamente abbandonate.
Questa la fisionomia della ex liquichimica di Montebello Jonico costruita negli anni settanta per placare l’ira di Reggio al tempo della rivolta guidata dal senatore missino Ciccio Franco. Era in tempo in cui si gridava “boia chi molla!”. Il capoluogo portato a Catanzaro aveva generato fortissime tensioni e lo Stato centrale ha cercato di dare il “contentino” alla gente proponendo un falso sviluppo con una realtà industriale altamente inquinante poi destinata a chiudere. Pioggia di soldi su Reggio e promesse di assunzione per molti al fine di sciogliere i disordini.
Siamo agli inizi degli anni settanta e con i fondi del cosiddetto “Pacchetto Colombo” iniziano i lavori.
Per distruggere la costa di Montebello Jonico e per mettere in piedi il “mostro” sono serviti 1300 miliardi di vecchie lire. Tanti sono stati utilizzati per violentare ettari ed ettari di sano territorio a favore di una fabbrica fantasma.
L’ex salina viene bonificata e prosciugata in soli due anni di lavoro. Inizia ad arrivare ferro e cemento. Gli sbancamenti continuano senza sosta e il movimento della terra arricchisce molti.
Lì doveva nascere la Liquichimica biosintesi; una fabbrica che avrebbe prodotto proteine per mangimi partendo da colture di microrganismi su derivati del petrolio.
Si sapeva che era inquinante tanto da dover essere chiusa ma ciò rappresentava solo un dettaglio di poco conto. L’importante era ottenere spendere i soldi.
I lavori continuano. Altro denaro a pioggia raggiunge all’estrema punta dello stivale. Quattro anni di lavoro e forse pure un morto. Questo un primo bilancio. Già, l’allora direttore del Genio Civile di Reggio Calabria, Romano, aveva vivamente sconsigliato l’utilizzo di quell’area perché “altamente instabile”. Lo ha scritto in una perizia ma ciò non è servito a nulla perché a causa di uno strano incidente è passato ad altra vita e non ha più potuto portare avanti la sua tesi. Nell’anno 1974 i lavori realizzati dal finanziere Raffaele Ursini sono conclusi. La centrale è pronta!
Nella struttura c’era tutto: grandi uffici, silos, vasche, depuratore, porto privato, spogliatori, laboratori, torre per lo scarico dei fumi, tubazioni per lo scarico a mare. Proprio tutto!
Poi cemento armato a pioggia, metri cubi di calcestruzzo gettati ovunque. Ferro, platee e zattere. Fondazioni per le strutture, cisterne di enormi dimensioni e binari che dal porto arrivavano fin dentro la struttura.
Partono anche le assunzioni. Centinaia le persone idonee. Saline non ha mai visto così tanto movimento nella sua storia. Tutto è pronto e si parte. Si mette in moto la grande fabbrica. La ciminiera fuma di bianco, dipendenti in camice all’interno, altri in cravatta e molti operai in tuta. I treni varcano le porte dell’ingresso mentre i materiali vengono scaricati in fretta. Rumori, cuffie e tappi alle orecchie. Laboratori in piena attività e giovani carichi di molte speranze sono lì a sognare il futuro.
Ma al sud vengono risparmiate sempre le sorprese migliori: gli scarti degli scarti o peggio ancora opere a breve scadenza come la ex liquichimica. Fumo negli occhi della gente, degrado ed un finale come l’inizio. Anzi peggio.
Che la fabbrica fosse cancerogena lo sapevano prima ancora che iniziassero i lavori. Ma solo dopo che tutto è entrato in funzione giunge la sorpresa: la fabbrica deve essere chiusa. È pericolosa per la salute pubblica. Ed ecco come dopo due mesi di lavoro le porte della ex Liquichimica si chiudono.
Il personale per circa 30 anni rimane in cassa integrazione. Cosa si può pretendere di più! Nulla.
Ciò che gli operai del tempo vedono, con gli occhi piene di lacrime, sono le lucide cisterne e gli argentei tubi che dopo vari percorsi giungono a mare. I cancelli chiusi, le finestre degli uffici serrate ed il rumore del silenzio. Oggi, a distanza di mezzo secolo, tutto è abbandono e degrado. Un ammasso di ferraglie, vinto dal tempo e “mangiate” dalla ruggine, è utile a molti politici per sbandierare promesse e sogni di sviluppo. Un modo per illudere, ancora oggi., il popolo desideroso del cambiamento ma soprattutto i giovani pronti ad ascoltare ogni parola di conforto pur di restare.
Anni ed anni di promesse senza mai capacità di agire. Anestetico puro somministrato a tante generazioni consapevoli, oggi, che tutto è rimasto peggio di prima.
Nonostante ciò si parla ancora come se nessuno vedesse e sentisse. Come se la gente di questo sud fosse sciocca ed incapace di capire. A loro si regalano false speranze con spot monotoni e ripetitivi. L’inconfondibile linguaggio politico è statico e dalle solite frasi: “faremo dell’area il gioiello del sud”, “la ex liquichimica dovrà diventare centro di sviluppo e luogo in cui molti dovranno lavorare”, “la liquichimica sarà il faro del sud. Porterà benessere e lavoro”, “attireremo finanziamenti per sviluppare l’area”, ed ancora come se non bastasse “questa dovrà diventare un incubatrice di idee dove si svilupperanno microaziende capaci di regalare lavoro a tanti giovani”.
L’area, nel tempo ha subito tanti travagli e nessun parto.
Negli anni 2000 è stata messa all’asta ed acquistata dalla SIPI. Questa avrebbe dovuto recuperare e rottamare ferro ed acciaio senza garantire la completa riqualificazione.
Nel 2006 viene acquistata dall’Immobiliare Saline S.r.l. , società del gruppo industriale svizzero Repower.
Subito dopo “spunta” sulla ex liquichimica il progetto “centrale a carbone”. Una “ambiziosa” idea svizzera tesa a “regalare”, guarda caso, all’estrema Calabria, sviluppo attraverso l’uso del carbone.
Quando nel 2012 il Consiglio dei Ministri aveva approvato la Valutazione di Impatto Ambientale per la costruzione, in quell’area, di una centrale a carbone, la Regione Calabria evidenziava che “la valutazione operata dal Governo contrasta con le ulteriori scelte di politica regionale e che hanno portato a formulare richiesta di finanziamento per la bonifica del sito ex LiquiChimica per la sua utilizzazione turistica, sicuramente più aderente alla vocazione naturale del territorio”.
Parole sublimi che non hanno trovato riscontro nonostante si riconoscesse che “il territorio e’ già stato nel tempo emblema di una beffa perpetrata dal Governo nazionale”.
In quel periodo diverse sono state le “tarantelle” ballate dai politici di turno. Cori del “si” e cori del “no”. Politici che davanti alla gente gridavano “no” e poi silenziosamente lavoravano per il “si”. Altri ormai erano abituati a parlare più lingue ed altri ancora chiusi in profondo silenzio.
Tuttavia il territorio e le associazioni ambientaliste hanno “forzato”una certa politica perché parlasse con la voce del popolo e ribadisse il “no” secco e chiaro. Ad alcuni l’idea di un secondo “pacchetto Colombo” piaceva. Alla gente per nulla.
Così dopo il “no” ufficiale al carbone e le mille promesse della politica nulla è spuntato all’orizzonte.
Oggi, in quell’area regna silenzio e desolazione. Nessuna pietra è stata mossa rispetto al passato. Il ferro arrugginito è al suo solito posto, le cisterne lì a testimoniare profondo abbandono. Anch’esse addolorate piangono le false promesse. Sole e invecchiate con il tempo, avvertono il peso di questi cinquanta anni capaci di logorare quanto di più fragile era presente all’interno. Ciò che oggi preoccupa non è solo quanto è stato tolto alla gente ma quanto lì dentro è rimasto: inquinanti di ogni tipo.
Ad evidenziare ciò, tra i tanti, nel passato c’è stato il consigliere nazionale dei verdi Vincenzo Giordano il quale sottolineava la presenza di silice gruppo 2, amianto, farine fossili e molto altro materiale che poteva rappresentare un vero e proprio rischio per la salute pubblica se aerodisperse.
Nel passato, come se non bastasse, sono stati rinvenuti sacchi con randalite e Clarcel, sostanze cancerogeni per l’uomo.
Anche l’Ancadic, in passato, ha insistito per chiedere verifiche ambientali per verificare se “perdura la gravissima situazione accertata dal consulente tecnico nominato dalla Procura di Reggio Calabria”.
Là dove tutto è abbandono e tristezza, con il mare e le montagne sul fianco si respira desolazione e rabbia carica di “perché”. Perché nessuno sviluppo, nessun posto di lavoro e nessun progetto. Perché solo false promesse.
In altri posti, con il sole presente quasi tutto l’anno sarebbero nati complessi turistici e ricreativi, aree residenziali, complessi sportivi e progetti finalizzati alla fruizione dell’area grecanica. Ed invece niente. Nulla di tutto ciò. Eppure nel 2014 il primo premio internazionale per la riqualificazione del Waterfront è stato vinto dallo studio tecnico del palermitano Scarpinato & Pierro. Si trattava di un progetto solidale ed ecologico teso a riqualificare l’area. Anche questo è rimasto solo un progetto tanto valido da essere premiato. Punto e basta.
È come se lo sviluppo, al sud, fosse impossibile! In questa terra amata ed amara quanto è fattibile in altre parti d’Italia qui sembra inattuabile. E chissà in cinquanta anni di storia quanti fondi della Comunità Europea saranno tornati indietro. Stesso paese, stesse leggi ma purtroppo diverse velocità in cui rassegnazione ed inerzia regnano sovrane. Parole e promesse sembrano la regola e mentre il popolo per necessità vuole crederci, di fatto, ormai disilluso, soffre. E se dopo mezzo secolo di storia tutto è rimasto come prima due sono le soluzioni: o il tempo non è mai passato o qualcuno ha preso in giro. Questa la vera vergogna della punta dello stivale!
Vincenzo Malacrinò
pubblicato negli speciali di Gazzetta del Sud