I FALLIMENTI DI MONTEBELLO JONICO
5 luglio 2009
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Montebello Jonico ha poggiato per lungo periodo il suo sviluppo economico su tre colossali pilastri: la ex Liquichimica, le Ogr e il Porto.
Tre realtà paragonabili a panzer rivestiti d’acciaio con la struttura interna di argilla. Tre storie diverse realizzate tutte con lo stesso filo conduttore: il denaro pubblico.
Realtà che avrebbero dovuto dare alla collettività benessere e allargamento della propria esile forma sociale.
Un popolo, sulla carta, dalle grandi prospettive di sviluppo, capace di affacciarsi verso monte e verso mare seminando progresso e vivacità economica.
A Montebello si dovevano costruire case, villette e centri per accogliere gli innumerevoli lavoratori che avrebbero popolato la Ex Liquichimica e le Ogr.
Case sparse ce ne sono ma non certamente quelle costruite per questi ambizioni progetti.
Sono le case costruite con la fatica della gente, di quella che non si è fermata alla promessa dello sviluppo del territorio ma arrangiandosi nel migliore dei modi è andata avanti per costruire un pezzo di storia.
Sono le case costruite con la fatica della gente, di quella che non si è fermata alla promessa dello sviluppo del territorio ma arrangiandosi nel migliore dei modi è andata avanti per costruire un pezzo di storia.
Ecco quali sono le poche forme di sviluppo: quelle promosse dalla gente. Niente di più.
Eppure lo stabilimento della Chimica Biosintesi sorto nel 1973 prometteva mari e monti.
Eppure lo stabilimento della Chimica Biosintesi sorto nel 1973 prometteva mari e monti.
Certamente non quel mare devastato a causa dell’erosione delle coste e di quel porto, forse progettato in modo contrario alle aspettative del mare, né quei monti mai sviluppati a causa della mancanza dei presupposti per un vero e proprio progresso del territorio.
Una storia, quella della ex liquichimica, andata avanti penosamente per circa 40 anni. Una fabbrica che avrebbe dovuto produrre soprattutto bioproteine.
Stranezza nella stranezza: la fabbrica funziona solo sette mesi per la mancanza dell’autorizzazione del Ministero della Sanità. Un numero che oggi si ripete perché sette sono i dipendenti della Sipi licenziati. Ma perché la Liquichimica non decolla?
Il motivo è uno molto semplice: la presunta cancerogenità dei prodotti. Certamente visto che era sorta proprio per produrre bioproteine e non caramelle si poteva sapere sin dall’inizio a cosa si andava incontro.
Ma per capire tutto forse bisogna fare un passo indietro. Nel 1970, per porre fine alla rivolta di Reggio, il Governo pensò di affiancare alla forza dell’esercito, intento a reprimere i moti, anche un piano di sviluppo economico. Così si sono impegnati circa trecento miliardi di lire per costruire lo stabilimento Liquichimica, che avrebbe assorbito circa mille persone.
Un grande progetto intento a scendere la tensione sociale. Così si è andato avanti e nel 1974, quando viene ultimata la struttura.
Intanto si distrugge la costa, si costruisce il porto si fanno collaudi per poi avere come risposta un “no” tondo e secco da parte del Ministero.
Intanto si distrugge la costa, si costruisce il porto si fanno collaudi per poi avere come risposta un “no” tondo e secco da parte del Ministero.
Intanto l’industria occupava circa 405 unità lavorative per pochi mesi.
La produzione di bioproteine non poteva andare avanti. Bastavano sette mesi di lavoro. I rischi per la salute si configuravano alti a causa della cancerogenità del prodotto.
Così tutto si ferma. Si va in cassa integrazione. Operai sparsi da una parte e dall’altra. Famiglie che si spostano dal nord al sud e scenari di vita improvvisati sulla base del niente.
Così tutto si ferma. Si va in cassa integrazione. Operai sparsi da una parte e dall’altra. Famiglie che si spostano dal nord al sud e scenari di vita improvvisati sulla base del niente.
Nel 1977 viene dichiarato fallimento. Così la Liquichimica va a confluire nel grande contenitore dell’Enichem assieme alla Sir di Rovelli, che manda in cassa integrazione circa 600 operai.
Iniziano così, gli anni del silenzio e dei tentennamenti mentre si costruisce la scala delle promesse.
Iniziano così, gli anni del silenzio e dei tentennamenti mentre si costruisce la scala delle promesse.
Passa il tempo e mentre la scala tende a raggiungere l’altezza della ciminiera i progetti di reindustrializzazione passano da un tavolo all’altro.
In tante occasioni ed in tanti convegni si parlava di questo genere di sviluppo.
Intanto nel 1997 entra in scena il Consorzio Sipi (Saline Ioniche Progetto Integrato), che rileva all’asta gli impianti e i terreni ex Enichem.
Intanto nel 1997 entra in scena il Consorzio Sipi (Saline Ioniche Progetto Integrato), che rileva all’asta gli impianti e i terreni ex Enichem.
Partono le idee progettuali, volendo realizzare ora questo ed ora quel prodotto ma di fatto il territorio non ha visto prospettive tangibili di sviluppo economico.
I cittadini si lamentano. Si hanno incontri. Le amministrazioni in modo deciso o tentennanti cercano di fare la propria parte mentre i politici delle varie taglie vendono ad ogni campagna elettorale un progetto per il rilancio dell’area.
Anche queste parole mai supportati da fatti. La sola cosa concreta è stato poi lo smantellamento delle strutture in acciaio e ferro così come la vendita di alcune aree di terreno.
Ma si tratta di proprietà private. Di persone che hanno investito il proprio capitale e che liberamente hanno scelto ora questa opportunità ora quella.
Ma si tratta di proprietà private. Di persone che hanno investito il proprio capitale e che liberamente hanno scelto ora questa opportunità ora quella.
La gestione di una azienda non può certamente obbedire alle volontà del popolo.
E proprio per questo in più occasioni, si è fatto riferimento allo Stato perché intervenisse in modo concreto perché l’area potesse portare concreto sviluppo alla popolazione.
I cittadini da 40 anni ancora attendono.
E proprio per questo in più occasioni, si è fatto riferimento allo Stato perché intervenisse in modo concreto perché l’area potesse portare concreto sviluppo alla popolazione.
I cittadini da 40 anni ancora attendono.
Vincenzo Malacrinò
pubblicato su “il Quotidiano della Calabria”