Home » Attualità, Eventi, eventi civili, Featured, Gazzetta del Sud, Headline, riflessioni

Jean Pau e la terribile guerra del Ruanda in un libro

16 giugno 2022 Nessun Commento

“Fuggimmo lasciando il cibo ancora caldo nei piatti. Fu l’ultima volta che vidi mio padre. Ci radunammo in un grande piazzale e in pochi minuti ci trovammo stipati tra una moltitudine di persone. Poi si udirono degli spari; non capivamo da dove venissero. D’istinto correvamo nella direzione opposta agli spari”.

Inizia, così, per loro una corsa a perdifiato senza sapere dove andare e nonostante fosse giorno, un buio pesto imperava davanti i loro occhi mentre il terrore si tagliava come pane.

La carne dei piedi lungo la fuga si lacerava al contatto con la terra mentre il cuore batteva sempre più forte lungo quella sconosciuta strada.

“Alcuni hutu non avendo ben capito cosa stava accadendo si misero a correre anche loro ma ben presto seppero che la preda eravamo noi e si tranquillizzarono”. Stava per iniziare una carneficina, il terribile genocidio che dal 7 aprile a fine luglio del 1994 ha colpito il Ruanda.

A raccontare ciò è un calabrese di adozione: Jean Paul Habimana, un ragazzo speciale e non solo per aver scritto l’interessante libro “nonostante la paura” dove in 180 pagine racconta il genocidio dei tutsi e la riconciliazione in Ruanda ma perché ha vissuto e conservato dentro di sé ogni tragico momento di quei mesi sperimentando, in prima persona, il dolore.

Dentro questo duro e profondo sentimento Jean Paul che aveva solo dieci anni, cerca la speranza e nel suo libro “nonostante la paura” “Terre di mezzo editore” racconta ogni sospiro e respiro di quei terribili giorni.

In tenera età deve cancellare per sempre momenti di bellezza dalla sua vita. Molto gli è stato tolto come la presenza del padre e di molti parenti ed amici. Un dramma che sconvolge la vita.

Ed egli stesso definisce “terribile” quell’anno che ha devastato l’animo umano. Un grande popolo diviso in razze dai colonizzatori, razze trasformate dagli stessi in etnie che hanno portato all’odio e al genocidio. “Hutu e tutsi all’inizio erano gruppi sociali, dice, Un tempo amici, parenti, persone che si volevano bene e che si sposavano senza distinzione alcuna. Poi, invece, il massacro.”

Così nasce l’odio tanto da portare gli “hutu” ad attaccare ed uccidere i “tutsi”. Un odio trasmesso dal potere capace di fare male, sottolinea Jean Paul

Ed in Ruanda purtroppo sono morti oltre un milione di persone nel giro di tre mesi ed un motivo vero non c’è se non sentimenti “costruiti”,  “trasmessi”  ed “inculcati” da chi riesce a spostare il popolo, come pedine, da una parte all’altra.

E Jean Paul era lì insieme agli altri. Doveva e poteva morire.  Con emozione racconta i tratti salienti e terribili di quei giorni: “erano le tre del pomeriggio e ho sentito sparare. Urla, grida di dolore, pianti. Sparavano sopra tutti. Io ero al convento e ad un certo punto ho visto tanta gente correre per la strada”. Anche egli corre fuori e ad un certo punto accade qualcosa di orribile. Gli Hutu sparano sulla folla senza distinzione alcuna. “I corpi dei miei amici cadevano addosso. Ero coperto interamente. Ero terrorizzato”. Immobile si ferma lì sotto. Sente lo strazio di chi grida perché squartato dal macete e dai bastoni chiodati”.  Poi esce e “i militari, dice Jean Paul, ci portano alle 4 del mattino in parrocchia. Proprio qui arriva una signora “nemica” ma nel cuore amica. Era una “Hutu” che prende lui e suo fratello e lo porta nella propria casa. “Pensavo che tutti i miei famigliari fossero morti, dice l’autore, dopo ho scoperto, invece, che erano vivi. Questo mi ha dato tanta forza”. Intanto i militari scoprono che Jean Paul è in quella casa e lo cercano. Il marito lo nasconde in un campo di banane ma la situazione è terribile. “Quest’uomo che non dimenticherò mai, dice Habimana, ha costruito un buco tra le piante e lì mi copriva con foglie. Però dovevo stare immobile. Era terribile. La sera, con il buio, quando veniva per farmi tornare a casa io non riuscivo più a camminare”. Così ho deciso di andare nel campo Tutsi. Forse mi avrebbero ucciso ma a casa loro ormai erano prossimi a scoprirmi. Arrivato nel campo una grande gioia: c’era mia mamma, le mie sorelle e i miei fratelli. Mancava mio padre che non ho più visto. Tutto era quasi pronto per ucciderci tutti ma poi a giugno arrivano i francesi che hanno liberato il campo”.

Adesso sono liberi e non più a fuggire lasciando il cibo nei piatti.

Pubblicato sullo speciale della Gazzetta del Sud

 

Lascia un Commento